Gioia Fiorentino: I bui anni ’70 e il terrore della dittatura – Capitolo 4
Proseguiamo con i capitoli dedicati a Gioia Fiorentino, curati dal figlio Emiliano. In questo quarto racconto, gli anni più difficili vissuti a Buenos Aires.
Di: Emilano Damonte
Gioia era incapace di posare. Semplicemente non riusciva a mettersi in posa, non riusciva a fermarsi artificialmente in una posizione solo per essere vista o ritratta. Allo stesso modo, non si è mai misurata, non ha mai scelto i suoi amici con criteri diversi dall’affetto sincero, non ha mai calcolato le convenienze. Chi l’ha conosciuta lo sa bene. Aveva un rigoroso senso dell’onore, che sommato a una sensibilità quasi patologica, la rendeva un personaggio che poteva essere molto difficile. Ma, come ho detto prima, chi riusciva a superare questi ostacoli trovava un essere umano di immensa bontà.
Gli anni Settanta a Buenos Aires sono stati anni di violenza esplicita. Mi sono sempre chiesto come abbiamo fatto a superarli indenni, almeno fisicamente. Si perdevano amici molto cari. Le persone semplicemente scomparivano. Nel maggio 1976 mio padre fuggì dal Paese, dopo la scomparsa di tre conoscenti. A giugno, appena un mese dopo, vennero a cercarlo nella casa dove vivevo con mia madre. Erano due poliziotti, lei in uniforme e lui in abiti civili. Avevo 4 anni e aprii loro la porta, li ricordo ancora oggi. Parlarono a lungo con Gioia, chiedendole di mio padre e della sua possibile ubicazione. Lei, che non misurava mai nulla, quel pomeriggio gestì con sottile maestria tutto e li trattò con serenità. Li fece sedere con le spalle alla biblioteca e servì loro il caffè, parlò della loro separazione e di quanto fosse difficile crescere un figlio da soli in una città come Buenos Aires e dichiarò di non avere idea di cosa fosse successo a mio padre, di cui non aveva più notizie dall’inizio di maggio, quando aveva lasciato il Paese.
Come indicato nella prassi, se avessero notato qualcosa di sospetto, sarebbero tornati la sera stessa. Per qualche motivo, non si fecero più vedere e non disturbarono più la mia famiglia. A luglio, poche settimane dopo, uno dei più cari amici di mia madre, Marcos Arocena, scrittore e drammaturgo uruguaiano, che non aveva precedenti di militanza politica, fu arrestato e poi scomparve. A quei tempi, bastava essere nell’agenda di qualcuno, o essere omosessuale, artista, intellettuale, giornalista, o far parte di un’associazione studentesca, per finire assassinati dal governo militare.
La scomparsa di Marcos fu un colpo durissimo per Gioia. Il terrore di quei tempi la riportò in un luogo che pensava di aver lasciato per sempre e la paura diede vita a un periodo di scarsa produzione artistica, ma di enorme attività teatrale, soprattutto in produzioni indipendenti nel mondo under, che lasciavano pochi o nessun guadagno e comportavano un rischio importante.
Gli anni Ottanta la vedono lottare per la sopravvivenza economica in un Paese distrutto, ma nel pieno di uno dei suoi periodi più prolifici e caratteristici. Colori forti e donne sensuali con seni rotondi e labbra carnose mostrano le cicatrici della violenza degli anni Settanta quasi come ornamenti. Di quel periodo ho solo qualche disegno nella collezione di Casoli e conosco alcune opere di Juan Lepes.
La dolorosa guerra delle Malvinas portò a Buenos Aires le esercitazioni di bombardamento, che Gioia trattò con profondo disprezzo, essendo lei stessa figlia della guerra. “Tutte queste cose sono stronzate, non sapranno mai cos’è un vero bombardamento.” disse serenamente nel bel mezzo di una di quelle pantomime della dittatura morente.
Gioia tirava fuori il meglio nei momenti più bui e difficili, sembrava invincibile, non c’erano crisi insormontabili al suo fianco, un’arte che ho imparato molto bene e da cui ho tratto enormi benefici.
Solo molti anni dopo capii che mia madre, mentre i suoi amici sparivano, aveva avuto il sangue freddo nel sedersi di spalle alla nostra pericolosa biblioteca, quando il gruppo venne a decidere la nostra scomparsa. Alle sue spalle c’erano dodici volumi del Capitale, gli scritti di Gramsci, le biografie del Che, la vita di Severino Di Giovanni e così via. Se qualcuno sta pensando che era ingenua, è solo perchè non l’ha conosciuta. D’altra parte, sembrava che si sentisse a disagio nella comodità e nella tranquillità; sembrava che avesse il bisogno di affrontare costantemente situazioni intense.
Alla luce di questo racconto maldestramente abbozzato, mi appare più comprensibile il suo lungo periodo finale di reclusione Casolana, di cui parleremo spesso. Casoli le ha permesso di trovare un tessuto di contenzione, che ha facilitato un lavoro di profonda ricerca artistica. Amici come Antonino e Guido Di Giorgio, e soprattutto il suo più grande amico, un vero fratello nella vita, Michele Maesa, sono stati fondamentali e incondizionati in questo periodo di feconditá artistica, che Casoli stesso non ha ancora potuto riconoscere, ma che sicuramente un giorno onorerà.