22 Novembre 2024
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Gioia Fiorentino: dalla carriera di Buenos Aires, all’isolamento casolano – Capitolo 3

Ed ecco il terzo capitolo del riassunto a puntate, che il figlio dell’artista ci dona, scavando nel passato della madre con discrezione, nel rispetto del carattere molto riservato di Gioia.

Di: Emilano Damonte

Gioia in pieno lavoro. Opera da tre soldi – 1987 – Teatro General San Martín – Buenos Aires

Gioia e il teatro: avanguardia, underground e San Martín

Durante la guerra, mia madre aveva messo delle tende che separavano la stanza dove dormivamo io e mio fratello. Ero molto piccola, non più di cinque anni, e giocavo a fare il teatro e ad andare in scena. Chi l’avrebbe mai detto che, più tardi, la vita mi avrebbe messa così tante volte sopra uno o intorno ad uno“, mi raccontava Gioia in un audio che le ho rubato durante le sue ultime settimane di vita.

Nel 1987 avevo 16 anni, quando Gioia uscì per salutare le oltre mille persone che riempivano la sala Martín Coronado del Teatro Municipal General San Martín di Buenos Aires e scoppiò in una standing ovation che ricordò per tutta la sua vita. Aveva allestito un lavoro straordinario di oltre 250 costumi perfetti per una superba messa in scena de “L´Opera da tre soldi” di Brecht, con Susana Rinaldi, Roberto Carnaghi e Victor Laplace nei ruoli principali, che gli valse premi e riconoscimenti dalla critica. Fu uno dei suoi lavori più prestigiosi, che ricordava con orgoglio, anche se non lo considerava il suo lavoro più creativo. Quel posto era riservato a un’opera nata senza fortuna intorno alla guerra delle “Malvinas” nel 1982. Si chiamava “Que mambo el de Colón“, scritto e diretto dal geniale Ernesto Mallo, narrava in modo bizzarro la storia della scoperta dell’America, accompagnata dalla storia di una “murga” (banda di strada tipica del Río de la Plata) che si esibiva dal vivo. Purtroppo la messa in scena fu il 2 aprile, un giorno nero nella storia Argentina. Forse lo spettacolo a cui era più affezionata e che ricordava con più affetto era la famosa “Vuelta manzana”: “Hugo Midón è stato l’uomo più onesto con cui abbia mai lavorato in teatro“, mi disse un pomeriggio all’improvviso, mentre stava passando al setaccio il passato. Gioia si sentiva molto più libera e a suo agio nelle piccole produzioni, il problema era che queste raramente facevano soldi.

Parte di una fertile avanguardia culturale che inizialmente trovò spazio all’Instituto Di Tella di Buenos Aires, Gioia danzò, sfilò, recitò, disegnò e creò scenografie e innumerevoli costumi; credo che l’unica cosa che gli mancasse fosse il canto in scena. Aveva un ottimo orecchio, ma non ha mai lavorato sul canto come mezzo espressivo.

Susana Rinaldi nell’Opera da tre soldi. Bertolt Brecht -Teatro General San Martín – Buenos Aires

Questo non è un curriculum, quindi non mi soffermerò su tutti i lavori di Gioia in 30 anni di teatro a Buenos Aires. Mi interessa solo mettere in luce un aspetto centrale della sua vita, del tutto sconosciuto in Italia. All’apice della sua carriera, dopo tre decenni di lavoro ininterrotto ai massimi livelli nel teatro, nel cinema e nella pubblicità, Gioia Fiorentino decise di abbandonare tutto e di andare nel paese dei suoi antenati. Perché? Dietro quale idea andò? Se l’è chiesta moltissime volte. Più di una volta ne abbiamo parlato nel letto dell’Ospedale di Casoli, dove ha trascorso gli ultimi due mesi della sua vita.

Mi permetto di abbozzare una teoria

Gioia non superò mai la morte del padre, il casolano Natale Fiorentino, un personaggio meraviglioso, diverso. Sarto di prima classe, avventuriero, sognatore, lettore accanito, curioso, autodidatta con un criterio elegante, fu lui a spingerla sempre verso lo sviluppo del suo enorme potenziale. Ma fu anche colui che la contenne, la guidò e le fornì un luogo emotivamente sicuro, senza il quale l’autodistruzione sarebbe stata inevitabile. Nel 1978 Natale morì a Buenos Aires e la depressione iniziò un lungo e lento percorso, che la portò gradualmente a sprofondare nel proprio abisso. La morte dell’amato Zio Checco, nel 1989, fu il colpo che le servì per prendere la decisione, a lungo ponderata e pianificata, di tornare in Italia. E così fece. All’apice della sua carriera, come abbiamo detto e, all’età di 50 anni, Gioia abbandonò tutto e si nascose tra le mura di Casoli.

L’isolamento casolano e un effetto inaspettato

Non è affatto saggio considerare il ritorno di Gioia a Casoli come un suicidio artistico e questo è un altro argomento che abbiamo spesso discusso con mia madre. La solitudine e l’isolamento abruzzese, hanno generato l’ambiente che le ha permesso di indirizzare tutte le sue forze creative allo sviluppo superlativo delle diverse tecniche plastiche che compongono la sua opera. Indubbiamente, ancora una volta, la sua capacità di generare bellezza dall’oscurità, ha fatto il suo lavoro. Questo, però, sarà oggetto di un’altra puntata, perché per oggi l’abbiamo già importunata abbastanza. Chi l’ha conosciuta, sa che in vita non ci avrebbe permesso tanto!

Costumi in scena – Invasioni 1989 – Teatro General San Martín – Buenos Aires

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