24 Novembre 2024
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Casoli 14 novembre 1943, l’esplosione della polveriera tedesca

L’ing. Gilberto Di Florio ci racconta cosa accadde quella tragica domenica di 78 anni fa. La fuga attraverso i balconi dei suoi genitori con lui piccolissimo in braccio e poco dopo il forte boato, la casa ridotta in macerie, lui e sua madre vivi per miracolo. Ci furono vittime e feriti sia tra i civili che tra i soldati tedeschi.

La casa di Antonio Di Florio con il sottostante negozio di materiali da costruzione, così com’era prima dell’esplosione della polveriera tedesca

     Casoli era piena di soldati tedeschi. Il primo palazzo requisito al loro arrivo fu quello di mio padre in Via Frentana, che era di recente costruzione e diviso in appartamenti. Cacciarono fuori la maggior parte degli inquilini, lasciando a noi l’appartamento all’ultimo piano. Gli ampi locali al piano terra li avevano riempiti con materiale esplosivo di fronte casa mia, vi era la scuola elementare e sulla sinistra la palestra. I militari tedeschi entravano in tutte le case e requisivano ciò che poteva essere loro utile. Erano entrati, sfondando le porte, anche nell’edificio scolastico e nella palestra..

Mia madre aveva visto in quei giorni uno strano andirivieni, verso la palestra, di gente che usciva con pezzi di lastre di sughero che veniva tagliato dal pavimento. Dapprima non riusciva a capirne il motivo ma successivamente mio padre riferì che esso veniva utilizzato per risuolare le tante scarpe sfondate non trovandosi assolutamente il cuoio. Ed infatti dopo qualche giorno parecchi paesani riuscivano a camminare con le scarpe a barchetta anche dentro le pozzanghere senza più bagnarsi i piedi con spesse suole di sughero grossolanamente cucite alle misere scarpe di allora.

Mia madre mi raccontava anche di aver visto dalla finestra della cucina, dopo lo scarico di parecchi camion di casse, alcuni soldati andare nel cortile interno dell’antistante palazzo scolastico e fare, con una specie di trapano, dei fori all’interno dei quali infilavano dei cilindretti scuri, ovvero dei candelotti di dinamite, che senz’altro sarebbero serviti a minare l’abitato di Casoli, così come era stato fatto nei paesi limitrofi.

          La domenica del 14 novembre 1943, verso le dieci del mattino, mio padre era intento a radersi quando sentì, proveniente dal basso, uno scoppio sordo, che fece tremare l’intero fabbricato e una serie di urla in tedesco. Si affacciò immediatamente alla finestra e vide salire una nuvola di fumo da una porta del deposito. Sapendo quanto esplosivo era stato stipato nei locali, e la numerosa serie di bidoni pieni di benzina, gridò a mia madre di prendere me che avevo due anni e di scappare, in quanto l’incendio, che si stava sviluppando avrebbe potuto innescare una grossa esplosione. Mentre mia madre correva a prendermi dal lettino e vestirmi alla meglio, mio padre aprì la porta di ingresso e vide che anche il vano scale era stato già invaso da fiamme e fumo, bloccando così l’uscita dal fabbricato.  Resosi conto del pericolo, decise che l’unica via di fuga si trovava sul retro dell’immobile dove, per ogni piano, c’era un balcone. Saltò per prima sul balcone sottostante, poi impose a mia madre di lasciar cadere giù anche me avvolto da una coperta. Col cuore in gola, riuscì a prendermi al volo e, dopo avermi deposto sul balcone, con le braccia tese afferrò mia madre che si era lasciata dalla ringhiera. Questo pericoloso calvario si ripeté ancora per due volte fino ad un terrazzino al primo piano.

            Carmine Garzarella, un amico che abitava poco lontano, vide la scena e, a rischio della propria vita, portò in soccorso una scala a pioli per agevolare l’ultima discesa fino a terra, almeno di mia madre, con me in braccio. Intanto, dalla porta anteriore sulla via Frentana, invasa dal fumo erano cominciati ad uscire dei razzi che, con sibili e scie luminose,  come fuochi pirotecnici, scatenavano la paura di quanti erano presenti costringendoli a precipitosa fuga per allontanarsi dal quel luogo il prima possibile.

            Mentre i miei genitori scappavano incontrarono il Sig. Mario Iezzi, che dopo essersi già messo in salvo, stava tornando sui suoi passi per rientrare nella sua casa che era adiacente alla nostra già in fiamme. Mio padre gli urlò di tornare indietro e scappare per l’imminente pericolo di uno scoppio. Questi rispose che si trattava di un attimo poiché aveva dimenticato qualcosa di importante e rientrò in casa senza più uscirne poiché dopo pochi secondi ci fu lo scoppio. Nella fotografia del funerale (vedi la foto) si vede la casa del povero Mario e la scala esterna che lui purtroppo salì per l’ultima volta, perchè dopo che i miei avevano percorso poco più di una decina di metri, ci fu un boato immenso e tutti furono scaraventati a terra dallo spostamento d’aria dovuto allo scoppio simultaneo di centinaia di quintali di bombe e di tritolo. Il cielo si era oscurato completamente e si sentiva soltanto il rumore dei materiali che ricadevano a terra. L’aria satura di fumo e polvere era irrespirabile.

Rimasti immobili diversi minuti anche per lo spavento, mio padre e mia madre si chiamarono per assicurarsi di essere ancora vivi mentre cominciavano a vedere che da terra pian piano l’aria iniziava a schiarirsi con uno strato sempre più alto. Dopo alcuni interminabili minuti con l’aria che era diventata meno “torbida”, volto lo sguardo indietro videro che al posto del fabbricato di quattro piani vi era un accozzaglia di travi distorte, pezzi di muro, pezzi di porte, finestre e mobili e quanto altro di risulta da abitazioni squarciate.

 Vicino a mia madre che mi stringeva al petto, a pochi centimetri, era distesa una trave in cemento armato spezzata in parecchi conci e tenuta assieme dai ferri che in essa erano ancora inglobati. Quale miracolo aveva salvato la nostra vita?  Lo spostamento d’aria ci aveva spinto contro la parete del fabbricato più vicino che al primo piano aveva un balcone. Tutte le macerie, che erano per la maggior parte costituite da pesanti materiali lapidei ricadenti dall’alto, si erano fermate sul predetto balcone e quindi aveva riparato proprio la striscia di strada dove eravamo stati scaraventati noi.

A piedi scalzi, semisvestiti e con diversi rivoli di sangue sul volto e sulle gambe per le ferite ricevute dalle scaglie di materiale edile, ci avviammo per le prime cure e per avere un ricovero verso la casa di mio nonno.

            L’onda d’urto dello scoppio aveva rotto tutti i vetri delle case del  paese che si affacciavano sul versante sudI frammenti del fabbricato erano caduti fino alla distanza di diversi chilometri dal luogo dello scoppio e sulla collina verso il lato est del paese, chiamato Colle Marco, dove si erano rifugiati molti uomini del paese, ed anche i fratelli di mio padre, nascosti per non farsi catturare dai tedeschi che li avrebbero mandati nei campi di lavoro.

             Il paese era avvolto da una nuvola di polvere ed i fuoriusciti si chiedevano in quale punto fosse avvenuto lo scoppio e fu mio zio Mario, muratore, che aveva aiutato a costruire la casa del fratello che, riconoscendo i frammenti di mattoni della fornace di Palena, che erano arrivati vicino al loro predetto rifugio, distante alcuni chilometri dall’abitato, capì che si trattava della casa del fratello.

Oltre ai danni che i fabbricati vicini avevano subito dall’onda d’urto, vi erano stai molti danni dovuti alla pioggia dei materiali ricaduti sui tetti. Una trave di ferro lunga sei metri fu lanciata in aria dallo scoppio e nella ricaduta andò a sfondare il tetto della casa del giudice Di Bartolomeo, che dista circa cento metri dal luogo del disastro e si infilò, avvitandosi, lungo la gradinata.

            Le vittime furono molte tra i civili che stavano nel quartiere, ma in numero maggiore tra i tedeschi che cercavano di spegnere il focolaio dell’incendio. Dopo lo scoppio, ai soccorritori si presentò una scena agghiacciante: i corpi dei soldati tedeschi investiti dall’esplosione erano stati tranciati in due, con la parte inferiore rinvenuta contro il terrapieno che era sul retro del fabbricato e la parte superiore diversi metri più a monte. Dovettero essere ricomposti nelle bare portate al cimitero.

            La mattina dopo, col capo fasciato, mio padre andò verso l’area dove sorgeva la sua casa e appena sbucò dal vico San Nicola vide uno spettacolo ignobile di sciacallaggio. Molte persone scavavano tra le macerie prendendo qualsiasi cosa utilizzabile e sfilavano i panni sepolti tra le pietre. Visto il proprietario si dileguarono e lui, avvicinatosi al materiale accumulato, con le lacrime agli occhi, vide la scatola rossa, seppur parzialmente rovinata, del suo orologio d’oro da taschino avuto in dono dal suo compare di cresima. Aveva una chiusura particolare a vite che era ancora intatta, l’aprì pieno di speranza, era vuota, una mano prima della sua aveva sottratto il contenuto e accuratamente l’aveva richiusa riavvitandola. 

A fronte di tali miserie si verificò anche un atto di gentilezza da parte di un galantuomo.  Dopo qualche giorno dal triste evento infatti, Candellino Cinalli, che dirigeva il vivaio forestale, posto sul greto del fiume Aventino a circa due chilometri dal paese, tornò in paese e restituì a mio padre il libretto di risparmio postale che aveva raccolto tra le sue piantagioni, molto probabilmente portato lì dal vento durante la ricaduta delle macerie.

            Seppur con la testa fasciata per le ferite riportate, mio padre tornava tutti i giorni sul luogo del disastro a recuperare i mattoni della sua casa abbattuta, bene prezioso allora, e dopo averli ripuliti della malta li accatastava. Era circa una settimana che svolgeva tale lavoro con animo disperato, quando una mattina accostò un camion tedesco da cui scesero due soldati armati di mitra e due prigionieri. Imposero anche a mio padre di caricare i suddetti mattoni ripuliti sul camion. A nulla valsero le sue preghiere per cercare di salvare il materiale facendo vedere la sua casa distrutta. Per tutta risposta i valorosi invasori alzarono i mitra con decisione ed a mio padre, sapendo quando poco rispetto avessero per la vita degli altri, toccò per alcune ore aiutare caricare quei preziosi mattoni sul camion tedesco.

Il mattino dopo questa triste esperienza patita, invece di accatastarli i mattoni li buttò dentro il provvidenziale laghetto che si era creato per la pioggia nella voragine creata dallo scoppio, con la speranza di poterli recuperare dopo la partenza dell’invasore. Cosa che con grande forza d’animo iniziò a fare con l’aiuto di mia madre che fungeva da manovale.  

            Lo scoppio simultaneo di tanto materiale bellico era stato terrificante e successivamente alcuni racconti dei testimoni dell’evento hanno contribuito a conoscere tanti retroscena.

            Al piano terra vi era un’incudine da fabbro su basamento di proprietà del meccanico che aveva ivi l’officina. Dopo lo scoppio tale incudine fu ritrovata contro il muro del cimitero distante oltre un chilometro.

            Il Geometra Moxedano, funzionario  del Genio Civile di Chieti, che con alcuni amici era scappato sulla Maiella per non farsi catturare dai tedeschi, raccontava che avevano perfettamente  sentito il boato dello scoppio e visto l’enorme nuvola di fumo e polvere che si era innalzata e mi precisò anche la data dicendomi pure che era di domenica mattina, in quanto erano appena arrivate per loro rifugiati sui monti le vettovaglie dai parenti.

            La casa di fronte alla nostra, quella dei fratelli Serraiocco, fu squarciata per la metà prospiciente lo scoppio come è visibile sulla fotografia tratta dal video dei Neozelandesi. Su di essa si nota ancora uno sciacallo che raspa tra le macerie!

            Una cosa è certa: il sacrificio di casa mia, con lo scoppio della dinamite in essa accumulata, ha salvato Casoli. 

Gilberto Di Florio

Sulla sinistra si vede la casa della famiglia Di Florio con a fianco l’immobile del signor Mario Iezzi, quello con la scala esterna. Clicca sulla foto per accedere ad altre info.
Le macerie dopo l’esplosione della polveriera tedesca. Immagine estrapolata dal video dei neozelandesi del 1944. Clicca sulla foto per accedere alla pagina con il video

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